UN COMPITO PER LA POLITICA

Da tempo sostengo convintamente che, nella follia di uno stato di eccezione come quello pandemico, il miglior posizionamento individuale sia quello improntato a un disincanto che sappia preservare la lucidità interiore e l’equilibrio del rapporto con l’esterno. In una situazione come quella che stiamo vivendo, tuttavia, non può essere trascurato il ruolo del decisore politico (e degli apparati collegati, dalla burocrazia all’informazione) nel creare le condizioni di abitabilità all’interno di questo “cambio d’epoca”. Purtroppo, però, ogni narrazione fin qui proposta è rimasta strettamente definita dalla centralità “scientifica” della questione sanitaria. Questo è stato chiaramente un errore politico. Sarebbe qui complesso riprendere la questione heideggeriana dell’impossibilità della scienza di pensare filosoficamente (e quindi politicamente), ma è semplice constatare come l’aver trasformato il discorso politico in discorso scientifico sia una contraddizione evidente: la politica parla per dare certezze, mentre la scienza parla per creare il dubbio che alimenta la sua incessante ricerca. Quando il postulato egemone di una comunità governata dalla politica si fonda sulla ricerca di una malattia si è già all’interno di uno scenario distopico. Certo, individualmente ci si può sempre sottrarre alla follia, ma l’attività della politica (e dei mondi a lei collegati) resta fondamentale nel rendere comprensibile e, possibilmente, felice il “mondo nuovo” che si profila all’orizzonte. Abbandonare questa responsabilità conduce inevitabilmente a una progressiva marginalizzazione della politica.